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20 dicembre 2006

Missioni militari per la pace

Gli scopi di tali operazioni vanno ben oltre il mantenimento della pace (peacekeeping).Esse si prefiggono di garantire la sicurezza e pacificare popolazioni in conflitto tra loro, portare assistenza ed aiuti a scopo umanitario, garantire l’insediamento ed il funzionamento delle istituzioni democratiche locali.
Poiché in dette situazioni spesso la pace non e’ l’obiettivo perseguito da tutti i gruppi e fazioni presenti sul terreno, è necessario intervenire in modo da convincere i più ostili, controllare odi e violenze, separare gruppi o fazioni in lotta tra loro, tutelare i diritti delle minoranze, ecc.. In questo ambito il rischio di scontri armati rimane elevato e diffuso e i soldati, quando giungono nel teatro operativo, devono anche difendersi per poter operare.
Dall’esigenza dell’autodifesa e dall’impiego militare di uomini e mezzi scaturisce l’obiezione: ma tali missioni sono veramente missioni per la pace? Il dubbio e’ comprensibile, ma la paradossale realta’ del mondo di oggi e’ che per dissuadere, convincere, pacificare sia necessario schierare forze armate in grado di svolgere, se necessario, operazioni militari ad alta intensita’ operativa. Per porre fine alla questione, più volte dibattuta anche in ambienti politici, circa l'opportunità di impiegare forze armate dotate di armamenti pesanti nella missioni di pace, il Capo dello Stato ha affermato recentemente che: «L'Italia ha bisogno dell'insieme delle Forze Armate, al più alto livello di modernità ed efficienza per adempiere i suoi doveri di partecipazione a quelle organizzazioni internazionali che, come recita l'articolo 11 della Costituzione repubblicana, sono impegnate ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni». Pertanto i dubbi sulla legittimità dell'impiego della forza in missioni di pace, al momento, sembrano rientrati.

2 novembre 2006

Esercito a Napoli

Si legge sui giornali di questi giorni che, ancora una volta, si pensa di risolvere i problemi della criminalità organizzata, a Napoli, mediante l'invio di reparti dell'Esercito. Al riguardo rimango colpito come le missioni degli anni novanta non abbiano insegnato nulla a certa classe politica. In passato, quando la situazione dell'ordine pubblico diventava incontrollata, si usava la carta di riserva, cioè l'impiego dell'Esercito, qualle deterrente e mezzo con il quale rassicurare l'opinione pubblica. Si trattava di situazioni derivanti da pubbliche calamità o da sollevazioni improvvise e temporanee di popolazioni che contestavano qualche decisione delle Autorità amministrative o di governo.
Negli anni novanta invece allo scopo di recidere la mafia, la camorra l'andrangheta, ecc.. per alcuni anni sono stati impiegati reparti dell'Esercito allo scopo di affiancare le forze di polizia nelle attività di controllo del territorio in alcune aree dell'Italia. Questà attività, è risultatata efficace durante il suo svolgimento, ma non ha portato a risultati concreti nel lungo periodo.
Ora si pensa di tornare nuovamente a quella soluzione senza tenere conto che molte cose sono cambiate nel frattempo. Inanzitutto, la disponibilità di "soldatini" da impiegare in economia, con il fucile e pochi mezzi di trasporto. Questa è diminuita sostanzialmente, sia per la sospensione della leva, sia perchè l'impiego dei professionisti è più costoso ed indicato per le numerose missioni avviate fuori dal territorio nazionale. Tra l'altro, il continuo assolvimento di compiti in aree di crisi, anche a lunga distanza dalla madre patria, ha sottoposto ad una elevata usura i mezzi dell'Esercito che sono al limite di sopravvivenza. L'Esercito d'altro canto, non è addestrato per gli obiettivi specifici di polizia ed inoltre non ha alcuna capacità di svolgere indagini sugli avvenimenti e quindi di prevenire il crimine.
D'altra parte si è reclutato un numero maggiore di effettivi dei Carabinieri (divenuti quarta forza armata) e di agenti della Polizia proprio per fronteggiare le emergenze di ordine pubblico nelle diverse parti del Paese. Pertanto esistono già le forze, appositamente addestrate, da impiegare nei compiti specifici di controllo della criminalità. Probabilmente è necessario siano impiegate meglio. Il ritorno all'Esercito ora non appare più giustificato "operativamente", ma solo come provvedimento di matrice politica.

21 ottobre 2006

Quale alternativa alla guerra preventiva?

Dopo l’undici settembre, la necessità di sviluppare una strategia efficace contro il terrorismo internazionale, ha suggerito agli Stati Uniti di intraprendere la dottrina della guerra preventiva volta a recidere tale minaccia e a salvaguardare i principi di libertà e democrazia nelle aree più critiche del mondo. Basti pensare agli interventi in Iraq, Afghanistan.. ecc.. Le modalità di questi interventi sono basate su una grande disponibilità di uomini qualificati e mezzi sofisticati che fanno ritenere possibile un rapido ed efficace raggiungimento degli obiettivi. Si capisce anche l’atteggiamento della grande potenza che non può accettare una sconfitta evidente ed il suo atteggiamento di punire gli artefici di un attacco sul proprio territorio, così devastante, con pochi mezzi ed in modo assolutamente inaspettato.
Tuttavia le resistenze delle forze di opposizione ai governi locali hanno reso la partita difficile ed ancora da risolvere dopo più di tre anni. La sfida è ancora aperta e sembra ferma ad uno stallo. Viene da obiettare perché il principio della “sorpresa e della massiccia disponibilità di mezzi” tipici della moderna dottrina di attacco non ha funzionato?
In fondo si pagano sempre gli errori di valutazione della situazione locale, ed in particolare, dell’atteggiamento della popolazione nei confronti dei soldati stranieri, ritenuti occupanti, dell’alta opposizione ai cambiamenti da parte dei potentati politici, religiosi, tribali interessati, della possibilità del terrorismo, non ben identificato e quantificato, di rigenerarsi con forze nuove, ecc..
Se il principio della sorpresa e della massiccia disponibilità di mezzi non ha dato risultati cosa fare allora? E’ certamente improponibile una corsa agli armamenti per far sì che la grande potenza possa prevalere, per questioni ideologiche, culturali e di prestigio internazionale. L’alternativa appare l’incentivazione della cooperazione e dello sviluppo, economico e sociale, per creare “il brodo di coltura” su cui avviare il dialogo, la fiducia, ed innestare i principi di democrazia e libertà. I risultati ci saranno? Probabilmente si faranno attendere a lungo anche in questo caso, ma saranno evitate stragi di innocenti e spreco di risorse per cause irraggiungibili.

20 agosto 2006

Missione di interposizione Israele-Libano

Nell'organizzare una missione per la pace che vede coinvolte le Forze Armate sorgono i soliti interrogativi. Nel Paese interessato, inanzitutto, non tutte le forze politiche sono d'accordo nel sostenere tali operazioni. Gli antimilitaristi vedono erose le utopie pacifiste con le quali hanno potuto mettersi in mostra, nel contesto nazionale, sostenendo i valori universali da tutti riconosciuti, ma altrettanto irragiungibili dopo il fratricidio di Caino.
I partiti di Governo hanno tutto l'interesse di mettersi in luce nell'arena internazionale, quali fautori di compromessi tesi a calmierare le tensioni e le crisi e quindi salvaguardare il buon nome ed il prestigio della propria Nazione. I partiti di opposizione fanno la loro politica per tornare al Governo del Paese. E le Forze Armate? Non possono che esprimere la dedizione ed il rispetto delle istituzioni per cui hanno prestato il loro giuramento.
Tuttavia, rimangono tutti i dubbi di una partecipazione "forzata", considerando la mancanza di risorse finanziarie, l'usura dei mezzi disponibili, la confusione in cui si muovono inizialmente le missioni sotto l ' egida dell'ONU.
Tutto come da copione. Anche per la futura missione di interposizione in Libano, nonostante una risoluzione dell'ONU, i principali Paesi europei si tirano indietro (Germania, Francia, Olanda, ecc..), l'Italia si comporta come da grande potenza offrendo addiritura un quinto delle forze richieste (3000 u.), pur consapevole che leadership, obiettivi da perseguire e compiti da assegnare alla forza internazionale restano misconosciuti. Eppure tutti concordano, in questo caos, che la missione sarà rischiosa, costosa e lunga. C'è sempre la speranza che il buon senso alla fine prevalga!

12 luglio 2006

Frecce tricolori..

In questi giorni è riapparso il tricolore per manifestare un sentimento nazionale legato alla competizione calcistica mondiale vinta dagli azzurri. Al riguardo si osserva che "il tifo", manifestato da una buona parte degli italiani riguardava il fatto specifico, eclatante, ma perciò fine a sè stesso. Tanto è vero che a distanza di tre giorni si parla di nuovi ingaggi, di dimissioni dell'allenatore, ecc.. si ritorna cioè al solito "menage" del calcio con tutti i suoi interessi di bottega, in barba ai sentimenti dei "fans" della nazionale di calcio.
Colpisce in questa vicenda che per rendere onore a dei campioni di uno sport fra tanti, che certo non hanno lo stesso impatto mediatico del calcio, si siano mosse, oltre alle massime cariche dello Stato, finanche le frecce tricolori che in altre sedi politiche sono minacciate di essere dismesse perchè creano troppo rumore ed inquinamento. Credo che ciò non sia mai successo nel passato.
E' vero la maestria dei piloti può accostarsi a quella dei calciatori in un contesto puramente sportivo in cui si celebrano i colori della nazione di appartenenza. Ma la situazione appare oggi oltremodo paradossale se si pensa che le frecce tricolori, giustamente tenute in vita per dimostrare l'elevato addestramento dei nostri piloti, vengono considerate, da molti in Italia, uno strumento di contorno celebrativo per manifestazioni più o meno importanti. Di questo passo appare ovvio considerare, in un contesto in cui la scarsità di risorse impedisce alla Forza aerea di svolgere le sue missioni istituzionali (trasporto truppe nei teatri operativi), che detto strumento sia divenuto inutile. Pare più redditizio mostrare l'abilità dei piloti, unita ai nostri colori nazionali, all'estero, per ottenere il rispetto ed il consenso per quello che sappiamo fare, anzichè impegnare una risorsa preziosa a sostegno di una glorificazione nazionale effimera.

18 giugno 2006

Missioni per la pace

Molto spesso i media ed alcuni esponenti del pacifismo nostrano considerano l’impegno di determinati soggetti verso le popolazioni meno fortunate o affette da crisi interne, derivanti da conflitti, politici, economici, sociali e militari, missioni di pace (a sottolinearne lo scopo positivo universalmente riconosciuto) e non pongono la dovuta attenzione a coloro, in uniforme, che affrontano disagi e pericoli per sostenere, aiutare le popolazioni interessate, creare le condizioni di sicurezza per l’avvio dei processi di pace. Esiste il paradosso che l’aiuto e il soccorso fornito, forse in modo diverso, ma altrettanto efficace, da un’organizzazione umanitaria sia nobile e legittimato ed invece se portato da contingenti militari sia da proscrivere in quanto artefice di ulteriori divisioni e conflitti. Se la pace nel mondo è un obiettivo che ogni uomo di buon senso deve perseguire, personalmente ritengo che il sostenere popolazioni meno abbienti solo in un determinato settore (sanitario, alimentare, economico, militare), senza considerare l’insieme delle altre necessità può creare forti squilibri che per assurdo vanno contro la pace in quella società. Per esempio in Somalia gli aiuti umanitari e/o militari non hanno portato la pace in quel popolo. Ora le organizzazioni umanitarie che intervengono in un’ area di crisi, pur risolvendo una o più situazioni di disagio, da sole, non potranno mai portare la pace quando la popolazione è divisa da conflitti interni. Le nuove missioni delle forze armate italiane volte alla pacificazione e alla stabilizzazione istituzionale nelle aree di crisi sono sicuramente portatrici di sicurezza e quindi di pace e per questo, senza voler togliere il merito per quanto di buono portano le organizzazioni umanitarie, a pieno titolo possono essere chiamate missioni per la pace.

1 giugno 2006

Le forze armate e il 2 giugno

Ogni anno con l'approssimarsi della festa del 2 giugno qualcuno della politica tende a mettere in secondo piano la presenza delle forze armate nelle celebrazioni locali e nazionali, in quanto esse rappresentano per alcuni una realtà troppo scomoda ed ingombrante. Per il popolo pacifista, tale solo di facciata, diviso su ogni cosa e pronto in ogni settore della società a "combattere" l'altro per la sua diversità, di opinione, razza, religione ecc..eccc.. è proprio eccessivo riconoscere alle forze armate il loro ruolo. Esse sono solo l'espressione della forza "bruta" di uomini senza scrupolo e senza testa che ambiscono a creare discordie e guerre per il loro personale prestigio.
Questi uomini non hanno alcun "merito" per la formazione della Repubblica italiana, patria dei soli lavoratori (ma chi sono?) e nata dalla resistenza di una sola parte della società.
Con questo paradossale ragionamento si cerca anche di invocare l'unità nazionale, certo necessaria ed auspicabile, ma irragiungibile se non si interpreta la storia fuori dagli interessi di parte e di potere della classe dirigente e non si ha il coraggio di riconoscere il "lavoro" di una parte della società, che pur in divisa e talvolta con le armi, ha difeso e garantisce anche oggi la sicurezza nazionale e gli interessi italiani all'estero.
Il discorso sarebbe molto lungo. Nel far rilevare che le forze armate hanno sempre dato tutto per questa patria e che pertanto la loro partecipazione alla festa della Repubblica, in armi, avviene a pieno titolo e merito, appare anche necessario fare piazza pulita dei pregiudizi e degli slogan elettorali, talvolta macabri, che inquinano sempre più lo spirito e la dignità di una festa nazionale .

13 maggio 2006

In un giorno il bilancio di una carriera

Con il passare degli anni di lavoro, specie nelle organizzazioni basate su una gerarchia, sono numerosi i momenti di cambiamento sia in senso positivo sia in negativo.
I cambiamenti positivi del lavoro sono momenti che gratificano, sostengono l'impegno dell'interessato e lo spingono ad applicarsi maggiormente nelle attività di competenza per poter sperare in altri cambiamenti simili. I cambiamenti negativi lasciano tracce indelebili, sia che siano la conseguenza di un proprio comportamento o di decisioni altrui, in quanto rappresentano momenti di sconfitta personale e certamente lasciano il segno per la persona che giornalmente è occupata in una attività.
Se questo alternarsi di sconfitte o successi è paragonato ai risultati degli altri lavoratori, con le stesse qualità e preparazione, il risultato è ancora più importante e determinante nel stabilire se un cambiamento è un successo o un "brutto momento". Ma quando al termine di una vita lavorativa si cerca di fare un bilancio io credo che questo sia comunque positivo non solo per i successi raggiunti nell'arco della carriera, ma anche per aver completato un periodo fondamentale della propria vita ed essere "sopravissuto" a tutte le situazioni. L'ultimo giorno di lavoro è comunque un momento incancellabile in quanto appare finalmente chiaro il risultato di un'intera vita lavorativa, senza che il risultato possa essere più modificato. Ma è anche il momento di cambiamento radicale che può spingere la vita verso una nuova e più gratificante direzione.

29 aprile 2006

Un giorno triste a Nassirya


Il 27 aprile scorso altre tre vittime in Iraq nell'adempimento del servizio volto a pacificare, ricostruire, addestrare, sostenere le popolazioni di quella lontana provincia, Nassiria. Nel disegno criminoso, c'è la volontà di uccidere per piegare anche psicologicamente quei soldati italiani che, inviati in missione per scopi civili e umanitari, vedono cadere i propri commilitoni, durante la normale routine del lavoro di ogni giorno. Si può capire lo sconcerto e si condivide il dolore dei famigliari colpiti senza ragione da una mano invisibile, feroce e assassina. Si vede nei volti tesi dei commilitoni un atteggiamento di fermezza, una compostezza inusuale, convinti che quel sacrificio non cercato, nè voluto, non sarà stato vano se la loro missione avrà il successo meritato. A questo mondo fatto di professionalità e dovere, va la riconoscenza ed il rispetto di ogni uomo di buon senso e che si sente concittadino di quelle vittime.
Una donna, con il suo bimbo, ormai orfano, ha gridato dal profondo dell'anima :"Ho sempre condiviso quello che ha fatto mio marito, sono stata sempre fiera del suo lavoro e di tutti i soldati impegnati in missione, a loro il mio grazie e il mio abbraccio". Italia matrigna ricordati di questi tuoi figli!


15 aprile 2006

alpini si diventa?

Spesso sorge una domanda: alpini si nasce o si diventa?. La questione è dibattuta e la sua proposizione non vuole certo alimentare propositi di marca campanilistica o , ancora peggio, razzista.
Se si guarda al vocabolario, alpino è un aggettivo che significa "delle alpi" ( o proveniente dall'ambiente delle Alpi) qualcuno lo chiama "montanaro" in senso meno delicato. Il Cap. Perrucchetti ha coniato il termine militare attribuendolo a soldati impiegati per la difesa dei confini dell'Italia e soprattutto provenienti dalle stesse valli che avevano il compito di difendere. Così è stato per più di cent'anni: gli alpini venevano reclutati nei distretti alpini ed assegnati ai Reparti schierati a difesa delle frontiere alpine. Cambiando la dottrina i mezzi di trasporto, i compiti operativi. l'alpino è diventato un fante "leggero", molto economico e operativamente valido. Rimaneva comunque il proposito di reclutare tali soldati dalle genti di montagna, abituate alla vita dura causata anche dall'ambiente naturale di provenienza. Il passaggio al soldato di professione ha fatto diminuire l'importanza della provenienza, preoccupandosi più di numeri che di valore intrinseco (del DNA), pensando che comunque il Dna non era condizionante per un buon soldato alpino. E' vero che l'esercizio di una professione porta a migliorare le abilità specifiche, ma temo che il mulo non possa diventare mai un cavallo e viceversa.La domanda pertanto ritorna, alpini si nasce o si diventa? Pare che la seconda alternativa sia quella adottata.

4 aprile 2006

il soldato di leva

Finita la coscrizione obbligatoria, ora ci si pone il problema di "inventare" altre forme di coinvolgimento di tanti giovani nelle attività di volontariato, per sviluppare il bisogno fondamentale di una società civile, progredita , cioè la solidarietà con il prossimo. Ora ci si accorge che, tolto l'obbligo della naja, i giovani dopo l'età scolare si annoiano e non hanno nessun richiamo al senso di appartenenza alla comunità nazionale, ai valori di patria, questa intesa come la casa comune che raccoglie le aspettative, le speranze del futuro, ma anche il sacrificio del sangue versato da generazioni.
Nonostante la vita del giovane soldato non sia mai stata apprezzata dalle mamme ed in molti casi dagli stessi interessati, sono passate generazioni felici di averla fatta, di aver conosciuto compagni di "camerata"e futuri amici per la vita. Ma la generosità verso gli altri, il confronto quotidiano con persone della stessa età, la gioia di far parte di un gruppo, di lavorare per un obiettivo comune, di divertirsi insieme si provava specialmente nell'anno (poi nove mesi) di vita militare. Per riappropriarsi di quelle "emozioni" e sanare in un certo senso l'attuale situazione, si pensa a un servizio civile generalizzato per i giovani che non sapranno per chi e quali scopi lavoreranno e chi saranno i prescelti a fronte di tanti "furbi" che lo eviteranno più della naja. In conclusione appare necessario riflettere: la leva era proprio da buttare ?