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9 aprile 2025

 Il clima in cui si sono svolti recentemente gli incontri internazionali alla Casa Bianca, per discutere della pace in Ucraina, rende quanto mai attuale il significato della fiaba “lupus et agnus”, una lontana reminiscenza degli studi di scuola media. La raccolta delle favole di Fedro (autore romano, nato il 20 A.C. e morto il 50 D.C.) si apre con questo racconto memorabile, che descrive in modo figurato l’eterna lotta tra il più forte e il più debole, destinato inevitabilmente a soggiacere. Il poeta prendeva spunto dalla realtà del suo tempo dove i due animali rappresentavano l’arroganza del potere verso il più debole, oggetto di prevaricazione, abuso e sopraffazione. In particolare, questo comportamento malvagio è descritto nei paragrafi seguenti:

“Perché osi intorbidarmi l’acqua?”, disse il lupo.

L’agnello tremando rispose: “Come posso fare questo se l’acqua scorre da te a me?”

“È vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole”.

“Impossibile, sei mesi fa non ero ancora nato”.

“Allora” riprese il lupo “fu certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie”. Quindi saltò addosso all’agnello e se lo mangiò.


Il lupo e l’agnello sono in netta contrapposizione, secondo un modello consolidato della tradizione orale che precede le varie testimonianze letterarie (Esopo, nato nel 564 A.C.). Di fatto, i due soggetti sono divenuti gli archetipi di due diverse situazioni esistenziali, definite all’interno di un mondo, come quello agricolo-pastorale, in cui la presenza del lupo costituiva una minaccia costante per il bestiame, dalla cui sopravvivenza dipendeva la vita dell’intera comunità umana. Proprio in questo tipo di società, si affermò, fin dai tempi più antichi, l’usanza di offrire alla divinità, quale vittima sacrificale, l’agnello (cioè il bene più prezioso). Nella civiltà antica romana, invece, il lupo era un animale temuto e rispettato, che aveva un legame particolare con la comunità: non poteva essere ucciso, né cacciato. Per questa ragione nel mito della fondazione di Roma fu scelto una lupa, in funzione di tutrice, che allattò i gemelli Romolo e Remo.

La tradizione del sacrifico propiziatorio alla divinità è stata successivamente reinterpretata dal Cristianesimo che ha simbolicamente identificato la figura del Cristo, con quella dell’agnello, che si è sacrificato sulla croce per redimere gli uomini dai loro peccati. Il lupo, invece, nel tempo ha assunto le sembianze della malvagità, della cupidigia e della prepotenza, raffigurando i vizi tipicamente umani, pur essendo un animale dal comportamento sociale intelligente. Al riguardo, si ricorda il lupo sanguinario di Gubbio, ammansito da S. Francesco o il lupo cattivo della fiaba dei Fratelli Grimm, Cappuccetto rosso. Quindi le figure del lupo e dell’agnello hanno acquisito importanza, grazie all’immaginazione popolare che ha proiettato su di esse paure, speranze, insicurezze e conflittualità.

Carl Gustav Jung, noto psichiatra, filosofo, antropologo svizzero, afferma che il mondo contemporaneo è popolato di una strana, nuova specie di lupo. Si tratta del lupo narcisista che fa leva sulle debolezze altrui per affermare il proprio ego e nascondere le sue fragilità. Pertanto egli manipola le sue vittime e si ciba metaforicamente di loro, comportandosi come se fosse lui il martire, in quanto incompreso. Apparentemente, è magnanimo nei confronti degli “agnelli”, anche quando li fa a pezzi e li divora. Si meraviglia quando qualcuno di essi accenna a un moto di ribellione o di repulsione. Questi individui, di fatto, indossano la maschera dell’ipocrisia. Ed è una maschera che, oggi, ricopre i responsabili di alcuni settori della nostra società. Può essere il governante che afferma di lavorare e impegnarsi per il bene dei sottoposti, mentre, invece, cura prevalentemente gli interessi di parte e personali. È il politico che lotta contro le disuguaglianze, in nome della correttezza istituzionale, quando invece limita ogni espressione critica degli altri. È colui che, fingendo amore e sensibilità, deruba e saccheggia, sfruttando ogni situazione, per poi fuggire di fronte alle proprie responsabilità, lasciando solo scheletri vuoti.

La favola del lupo e dell’agnello è tra le più famose e riproposte in varie epoche perché il suo tema è universale e ricorrente in contesti storico-sociali diversi, dove esistono: la volontà di sopraffazione dei potenti nei confronti dei più deboli, le subdole giustificazioni del potere, l’inevitabile sconfitta di chi osa opporsi nonostante i suoi conclamati diritti. In tale contesto, si può dedurre con rammarico che a nulla vale, contro la brutalità del più forte, la verità del più debole.


10 novembre 2021

LETTERA all'anno che verrà

 

Caro anno nuovo,

ti sto aspettando con ansia perché desidero risollevare con un tocco di gioia e di ottimismo la mia vita. Vorrei riscontrare i segni della tua generosità verso tutti coloro che saranno con te durante il succedersi dei tuoi giorni.  La lista delle cose da migliorare su questo pianeta è molto lunga e in parte a me sconosciuta. Ma concedimi qualche istante per esprimere qualche mia richiesta.

Nella speranza che tu non nasconda inaspettate e brutte sorprese, chiedo di poter beneficiare di un anno con un po’ di serenità, di affetto, magari con qualche piccola soddisfazione da condividere con gli altri e le persone care.  Non farmi mancare la salute necessaria per continuare ad andare avanti e affrontare le situazioni difficili. Leggo e sento che sarai un altro anno impegnativo, per molteplici ragioni, a somiglianza dell’attuale e di quelli trascorsi di recente. Ho fiducia, tuttavia, che tu possa aiutarmi a tirar fuori il sopito coraggio per affrontare i giorni che non vorrei mai incontrare. Nella società in cui vivo c’è tanto bisogno di saggezza e condivisione. Calma gli animi più agitati facendo loro riconoscere le ragioni della pacifica convivenza. Tuttavia, non essere troppo flessibile verso coloro che, consapevolmente, sprecheranno il tuo tempo con comportamenti egoistici e inconciliabili con la natura umana.  Fa loro intendere che fanno del male anche a sé stessi.

Consigliami come togliere il velo di incomprensione che avvolge il mio cuore, facendomi provare la gioia di donare qualcosa che mi appartiene alle persone che mi accompagnano e sono a me vicine, durante le tue lunghe giornate. Dammi una mano a togliere la polvere dai miei occhi, per riconoscere meglio il mondo che mi circonda e comprendere ciò che è veramente importante per me e gli altri.

Sai bene che la tua durata è breve e anch’ io non posso sprecare il poco tempo che la vita mi riserva. Fa in modo che ti possa apprezzare e ricordare per quanto di buono e utile darai in ogni singolo tuo giorno. Mentre si avvicendano le tue stagioni, accompagna con il tuo silenzio le persone che hanno bisogno di essere ascoltate, capite o semplicemente notate perché anche loro possano vivere in condizioni dignitose.

Ti invito a non disperdere e a conservare gelosamente tutto ciò che quest’ anno, prossimo alla fine, è riuscito a realizzare con enormi sacrifici.  Se puoi, evita gli errori che immancabilmente sono stati compiuti. Piuttosto utilizzali per trarre utili ammaestramenti e rendere più interessanti i tuoi giorni.

In attesa del tuo arrivo, conto sulla tua comprensione, nella speranza che queste mie istanze possano avere qualche seguito.  Certo sono consapevole che ti chiedo tante cose, troppe. So che esse sono ardue da realizzare, ma lasciami sperare in un anno più vicino alle necessità di ogni singola persona. Purtroppo i tempi che corrono sono pieni di incertezze e preoccupazioni. Qualche piccolo segno positivo può essere di aiuto nell’affrontare gli anni che verranno. Da parte mia, darò il mio contributo affinché le cose vadano meglio e cercherò di non rendere il tuo compito ancora più complicato. Ti aspetto. A presto.

28 marzo 2021

La speranza nel futuro

All’inizio del 1990, ha fatto molto clamore un libro pubblicato dal maestro sconosciuto di Arzano (NA), Marcello D’Orta, nel quale egli raccoglieva alcuni temi, scritti con il linguaggio peculiare e autentico dei propri alunni, nei quali traspariva la povera realtà sociale del luogo. Questi bimbi, pur rassegnati e tristi nella loro condizione di indigenza, raccontavano con sgrammaticature, distorsioni e ilarità quanto spiegato dal maestro, nascondendo tra le righe un forte desiderio di riscatto, la voglia di giungere presto ad un futuro più gratificante della realtà in cui si trovavano. In questo periodo di pandemia, sicuramente anche noi, qualche volta, ci siamo fatti coraggio ripetendo la frase più significativa di quel libro, “Io speriamo che me la cavo”, avvalorando la saggezza manifestata inconsciamente da quei ragazzi nei loro temi, il cui significato esplicito si sostanzia nella speranza di una sorte migliore, in futuro.  

La speranza (unita alla fede e alla carità) è uno dei cardini della teologia cristiana e, come si sa, è l’ultimo sentimento a morire. Essa, pertanto, non è assimilabile a formule generiche come: ”andrà tutto bene”, volte ad esorcizzare un presente inaspettato e sgradito, ma rappresenta una presa di coscienza, impegnativa e coraggiosa, verso una realtà ancora da costruire attraverso l’esperienza del passato e sulla base dell’attuale situazione. Ciò è quanto avrebbe bisogno la nostra società in questi tempi pieni di incertezza. Invece, siamo invasi da una concretezza fasulla di numeri e previsioni labili, specie sulla lotta contro il virus che ha cambiato la nostra esistenza. Si mira giustamente al vaccino che salverà la vita: qualcuno afferma che esso è già pronto in Russia, ma altri temono che questo non sia sufficientemente testato. Si ritiene allora più sicuro aspettare quello in sperimentazione in Inghilterra, che potrebbe essere distribuito a fine anno, o meglio, tra un anno o forse due. I giovani, sempre citati come pieni di belle speranze, non si curano della pandemia, preferiscono divertirsi oggi, poi domani si vedrà. Gli adulti che gestiscono questo eterno presente, senza una limpida visione di futuro, ben si guardano d’ invocare la speranza per non essere considerati imbelli. I più anziani sono i soli attaccati alla speranza, per cercare di sopravvivere. La speranza non può nascere dall’incertezza, essa si erge su solide fondamenta precedentemente costruite.

Questo tema è stato affrontato anche nel meeting di Rimini, costatando che il nichilismo (disconoscimento dei valori tradizionali, per favorire la nascita di altri inesistenti), frutto velenoso del passato, ha attecchito maggiormente con lo sviluppo della pandemia, alimentando nuove forme di opinione come i negazionisti e i “no vax”.  Resta il fatto, tuttavia, che il virus non dà tregua e al momento lascia pochi spiragli all’ottimismo. Il mondo intero da marzo è sottoposto a un test di resistenza che ha rivelato i limiti delle strutture sanitarie, economiche e, soprattutto, quelle culturali e di opinione. La quarantena, senza volerlo, ha posto le nostre certezze davanti al tribunale esigente della vita, davanti all’evidenza inappellabile del presente, lasciando aperta una questione scottante:  in quale modo si può alimentare la speranza nel futuro? Don Giulio Carron, attuale guida di C.L., dopo una profonda analisi è giunto alla conclusione che “tutto dipende dal punto di appoggio che c’è nel presente, da ciò che possiamo cogliere ora, per restare in piedi”.

 “La società non può accettare un mondo senza speranza”, ha affermato Mario Draghi, in apertura del meeting e, nel proseguo, ha sottolineato che “la partecipazione alla società del futuro richiederà, ai giovani di oggi, ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento”. In conclusione, appare opportuna, innanzitutto, un’indagine precisa e pubblica sulle ragioni di quanto accade oggi, in quanto queste, una volta definite, ci faranno guardare in modo diverso al futuro. Ma occorre, in particolare, sostenere l’arrichimento culturale, una preparazione più accurata delle giovani generazioni,  rivolta a colmare i vuoti di una società edonistica, del profitto e dei consumi, per rispondere alle sue necessità di cambiamento strutturale, al fine di cogliere quelle opportunità che fanno ben sperare per l’avvenire. 



IDENTITA' DI UNA NAZIONE

 

L’identità di uno Stato si basa su elementi, storico-culturali, politici, religiosi, i quali rappresentano, nel loro insieme, il patrimonio che unisce i cittadini e li caratterizza nei confronti di altre nazioni. Il dibattito sulla laicità delle Istituzioni  e l’importanza di tenere vive le radici cristiano-cattoliche nella società italiana non ha ancora portato a risultati concreti, anzi ha amplificato la difficoltà di sviluppare un sentimento nazionale comune che esprima l’appartenenza a questo Paese. Per risolvere il confronto laicità-religione tradizionale, presente in molte comunità occidentali, si è affermato in epoca moderna il concetto di “religione civile”, rilanciato negli Stati Uniti, nel 1967,  ad opera del sociologo Robert Neelly Bellah, attraverso un profondo studio sulle religioni. Tale pensiero si concretizza nella elaborazione di un insieme di  “modi di dire, simboli e riti,  tratti dalla religione tradizionale, per rafforzare l’identità politica della società civile, da realizzare mediante un’armonica compenetrazione tra potere politico e potere religioso (Rusconi)”. In altre parole, alcuni elementi delle religione tradizionale sono utilizzati per rinforzare l’identità politica della comunità nazionale. Tutti noi ricordiamo, in tempi non molto remoti, che le manifestazioni pubbliche in occasione delle ricorrenze patriottiche più significative, comprendevano sempre  la celebrazione della S. Messa. La “religione civile” si differenzia dalla fede politica, in quanto si colloca al di fuori delle ideologie politiche, entro il sistema democratico e convive con diverse religioni tradizionali. L’argomento è entrato nel dibattito attuale quando si è discusso, durante la stesura della Costituzione europea, sulle radici cristiane dell’Europa e, allo stesso tempo, sulla necessità di confrontarsi con nuove religioni e nuove culture, quali l’islam, la Cina, l’India, ecc.. In Italia il tema appare di attualità in relazione alla caduta e alla crisi dell’etica civile e pubblica (per corruzione, evasione fiscale, criminalità, mafia, ecc..) e alle critiche avanzate dal mondo cattolico, all’adesione, da parte delle Istituzioni dello Stato, a nuove concezioni di libertà individuali e di diritti civili, in conflitto con i principi della sua dottrina.  D’altra parte, nel pensiero laico e ateo di un’altra parte della nostra società, si fa strada sempre di più l’avversione verso i simboli ed  i riti religiosi, in particolare di quelli riguardanti  la religione cattolica. Questa incapacità di considerare e rispettare le sensibilità degli altri è la prova dell’esistenza di una profonda divisione nella società italiana.

Molti studiosi (Galante Garrone, De Luna, Tullio-Altan, ecc.) ricordano che nel nostro Paese non si è formato ancora il “patto di memoria”, il sentimento nazionale che si riconosce in una storia condivisa. Essi individuano quali cause di tale carenza: la disaffezione dei cittadini verso la cosa pubblica, il prevalere dei particolarismi in molti settori sociali e dei campanilismi a livello territoriale, lo scarso potere unificante dei simboli e dei miti (aspetti storico-culturali-politici) attorno a cui è stata costruita la nazione. Molte analisi sul tema individuano nelle responsabilità pubbliche e politiche il fattore prevalente che ha impedito la formazione, nella nazione, di una “religione civile”. La carenza di patriottismo repubblicano (Rusconi, 1997), di grandi riti capaci di scandire la vita pubblica, di un’idea alta di nazione, è anche l’effetto del debole investimento operato al riguardo dalle forze politiche e dai partiti che si sono succeduti nel corso degli anni. Essi non hanno saputo o voluto “sacralizzare” i momenti e le figure importanti della nostra storia.

In Italia, ma non solo, c’è ancora molto da fare per unire i cittadini attorno all’idea di una “religione civile”. Eppure questa è di fondamentale importanza per il sistema politico e la classe dirigente, in quanto favorisce l’armonia ed il governo del Paese, soprattutto nelle fasi di maggior rottura della società, quando la tenuta dei legami sociali è più a rischio. “ Una Politica non in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere (De Luna, 2013, 11)”.

 

24 luglio 2020

30 luglio. Giornata internazionale dell’amicizia, stabilita il 2011 dall’ONU.

I valori universali sui quali è fondata la ricorrenza sono qui descritti.

Il nostro mondo deve affrontare molte sfide, crisi e situazioni che dividono, come la povertà, la violenza e le violazioni dei diritti umani. Esse, tra le altre cose minano la pace, la sicurezza, lo sviluppo e l'armonia sociale tra i popoli del mondo.

Per affrontare quelle crisi e sfide, le loro cause alla radice, è necessario promuovere e definire uno spirito condiviso di solidarietà umana che assume molte forme, la più semplice delle quali è l'amicizia.

Attraverso l'amicizia si accumulano quei legami di cameratismo che sviluppano forti legami di fiducia tra le persone contribuendo allo sviluppo dei cambiamenti fondamentali necessari al raggiungimento della stabilità e sicurezza del mondo in cui viviamo.


27 giugno 2020

La maschera che ha cambiato la vita

La pandemia che negli ultimi tre mesi, inaspettatamente, ha interessato molti abitanti di questa terra, in modo più o meno grave, ha costretto tutti a cambiare il proprio stile di vita. Inizialmente, qualche sprovveduto governante paventava che il proprio Paese/Regione fosse esente dal possibile contagio di Covid-19, vantando per sé e i propri cittadini capacità quasi taumaturgiche. Egli immaginava in modo illusorio che la propria comunità ne rimanesse esente per caratteristiche ambientali, fisiche, comportamentali, ecc.. o per capacità organizzative e competenze più efficaci del proprio servizio sanitario. Ora, invece, abbiamo la certezza che il virus, ancora in circolazione, non ha preferenze e colpirà anche nella porzione più recondita del pianeta.
Per affrontarlo, nonostante lo sviluppo della scienza e della tecnologia siamo tornati alle regole più elementari: protezione delle vie respiratorie, mantenimento della distanza fisica, abluzioni frequenti alle mani. Non senza difficoltà e titubanze, abbiamo dovuto riscoprire un oggetto legato al mondo magico dell’illusionismo, la maschera protettiva. La voracità del coronavirus ci ha reso tutti mascherati, privi di un volto e incapaci di esprimere le emozioni più significative: non un sorriso, non un bacio affettuoso, non una smorfia di dissenso. Che pena per i protagonisti della commedia e dello spettacolo, privati delle loro numerose espressioni artistiche. Che sconforto per i vanitosi, sempre alla ricerca della propria visibilità, allontanati dai parrucchieri e dai trattamenti estetici. E che dire dei mutamenti di coloro che sono soliti cambiare il colore dei capelli? Dietro la maschera celiamo tutti i nostri sentimenti, le debolezze, anche il dolore per la perdita di qualcuno, biascichiamo parole monotonali, prive di enfasi e talvolta di senso. Per strada non riconosciamo nemmeno i nostri familiari, camminiamo evitando gli incontri con le altre persone, possibile sorgente di contagio. Al massimo li degniamo di uno sguardo furtivo per calcolarne, in un breve attimo, la distanza.
La maschera che donava gioia e personalità nelle feste carnevalesche, ora ci rende irriconoscibili, amorfi, senza sentimenti, asociali, soli. Essa certifica che di fronte al rischio della malattia siamo tutti nelle stesse condizioni, comprese le relative conseguenze. Questo orpello, oggi divenuto anche fonte di affari, ci fa toccare con mano tutta la nostra fragilità, l’appartenenza a un destino comune, evidenzia la dedizione e lo spirito di sacrificio di chi assiste i malati, la gioia della guarigione, la voglia di libertà e di rinascita.
Quando un giorno, speriamo il più prossimo possibile, ci libereremo il volto dalla maschera, affronteremo una realtà diversa da quella vissuta nel passato. Ci accorgeremo che il benessere raggiunto non è più sostenibile dal punto di vista economico, ambientale, etico, sociale. Esso ha generato il consumismo esasperato e un mondo frenetico e profondamente malato, dove fiorisce, l’egoismo e l’indifferenza, la ricchezza per pochi fortunati e tanta povertà. La tecnologia e la connessione continua hanno permesso la globalizzazione di ogni aspetto della società avanzata, ma non hanno dato abbastanza valore agli affetti, al senso di comunità e identità nazionale, al rispetto del prossimo, alla necessità di preservare la bellezza e l’armonia del nostro pianeta. 
Dopo una pandemia senza precedenti, forse avremo preso maggior coscienza sulla necessità di ridurre i ritmi frenetici, pur usando i nuovi mezzi tecnologici e riscoprire valori dimenticati. Innanzitutto, la crisi richiede uno sforzo comune, globale. Sarà necessario dare impulso alla ricerca scientifica e incrementare la preparazione culturale, come base per sviluppare ogni ambizione direttiva o professionale nella società. Il merito di chi si prodiga con spirito di sacrificio e impegno per il bene e la sicurezza comune, va giustamente riconosciuto e in tale contesto è necessario valorizzare l’esperienza di chi ha lavorato per tanti anni, responsabilmente. Le persone anziane, sempre più numerose, hanno il diritto di essere curate e valorizzate, in quanto la vita è un bene prezioso sempre, senza preclusioni di età. Si prenderà maggior consapevolezza del significato di libertà fisica e intellettuale, dell’impiego oculato del tempo, dell’importanza dei rapporti umani, dell’esigenza di rispettare il pianeta che ci ospita. Finalmente, noi persone nuove, dopo un guerra senza macerie, potremo essere all’altezza delle sfide future e compiere un salto evolutivo per avvicinarsi al traguardo di una convivenza più solidale e civile.


24 aprile 2020

Memoria della Resistenza (25 aprile)

La memoria della Liberazione (festa del 25 aprile)

Dal 25 aprile 1945, molti hanno cercato di appropriarsi dei valori di un periodo cruciale e tragico per la rinascita dell’Italia. Per anni è stato scritto e raccontato che solo un parte aveva combattuto per far cadere il nazifascismo, dimenticandosi il ruolo delle forze armate italiane, sul campo di battaglia, a fianco degli alleati, nei campi di internamento e concentramento o nella resistenza vera e propria (Divisione Acqui e altri). I numeri reali sulla partecipazione delle Forze armate italiane alla guerra di Liberazione (8/9/1943 – 8/5/1945) sono incisi a perenne memoria sulla stele di Porta S. Paolo, a Roma e sono assolutamente sorprendenti per molti:

-          Militari che combatterono nelle formazioni Partigiane: 80.000;

-          Militari caduti nella guerra di Liberazione nel periodo : 87.000;

-          Militari internati che si rifiutarono di collaborare: 590.000;

-          Militari inquadrati nei reparti: Esercito (413.000), Marina (83.000), Aeronautica (31.000), G.F. (3.000)

Alla memoria di quanti hanno onorato la patria Italia.


17 aprile 2020

NATO: dopo 71 anni

L’Alleanza è nata il 4 aprile 1949, come sistema di difesa collettivo riguardante il territorio metropolitano degli stati membri, sulla base del criterio di mutuo soccorso: nel caso di una aggressione armata esterna a uno o più membri  tutti gli altri sono impegnati ad intervenire per garantire la sicurezza ai membri aggrediti. La risposta non è automatica ma deve essere preceduta da consultazioni politiche. Nel 1969 la NATO assunse durata illimitata (con facoltà di recesso da parte dei membri). Nel 1991 stabilì una Partnership for Peace con la Russia e iniziò un processo di allargamento a Est, arrivando a includere tutti i Paesi dell’Ex-Patto di Varsavia, i tre Paesi baltici e alcuni Paesi dell’ex-Jugoslavia. Allo stesso tempo sono stati avviati accordi di collaborazione con Ucraina, Georgia, Azerbaijan e Mongolia. Inoltre a partire dal 1999, in occasione del suo 50° anniversario, per la prima volta intervenne militarmente al di fuori della sua area di competenza,  contro la Serbia e contro i Talebani in Afghanistan. 
Oggi la NATO continua ad essere il principale sistema di sicurezza collettiva del mondo, col più alto grado di standardizzazione delle forze nazionali che ne fanno parte e a svolgere funzioni di contenimento dell’influenza militare e politica russa nell’Europa Occidentale (sono stati schierati piccoli contingenti NATO in Islanda, Polonia e Paesi Baltici). Tuttavia l’Alleanza presenta  anche contraddizioni interne: la posizione politica incerta della Turchia, dopo le velate accuse di Ankara verso la NATO di aver sostenuto il fallito colpo di stato del 2017 e l’acquisto di missili dalla Russia;  la richiesta di Trump con l’Europa di maggior contributi al bilancio comune  e infine, l’avvio di altri sistemi di collaborazione tra i Paesi europei, come il Trimarium, un patto stabilito nel 2018, essenzialmente di carattere economico, tra i Paesi del vecchio impero asburgico. Questo  raggruppa dodici Paesi, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Austria, Slovenia, Croazia,  toccando il mar Baltico, il mar Nero e l’Adriatico.